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Sotto un albero di carrubo, in un'aiuola urbana, alcune persone di diverse provenienze condividono memorie legate all'albero di carrubo.
Riconoscersi sotto un albero di carrubo

Partecipare culturalmente? È (ancora) un privilegio

Pratiche interculturali e comunitarie per superare un immaginario culturale dominante

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Data
26 novembre 2025

di Francesco Mannino

Affrontare oggi la questione delle barriere sociali e culturali significa farsi carico di un tema delicato della vita democratica contemporanea: la diseguale possibilità di prendere parte alla cultura, non solo come consumo, ma come esperienza di cittadinanza e come abilitante molteplice. Se la partecipazione culturale è una forma di relazione con la comunità e con il patrimonio condiviso, la sua negazione o limitazione produce esclusione, isolamento e perdita di legami sociali. L’accesso alla cultura, in altre parole, non è un lusso o un accessorio della vita pubblica: è un diritto fondamentale che permette di abitare consapevolmente la società. Tuttavia, in Italia, questo diritto è ancora condizionato da un sistema di barriere stratificate – fisiche, sensoriali, cognitive, e poi economiche, territoriali e digitali, ma soprattutto sociali e culturali – che riflettono e riproducono le disuguaglianze più ampie del Paese. Non è un caso se solo una persona residente in Italia su tre può contare su una vita culturale piena, scendendo a una su quattro in Sicilia e Calabria, e una su cinque tra le persone minori di quelle regioni (ISTAT BES 2024).

Le barriere sociali si manifestano spesso in modo invisibile, intrecciandosi con la storia e la struttura delle istituzioni culturali stesse. Non si tratta soltanto di ostacoli legati al reddito, alle cosiddette abilità, alla distanza geografica o alla mancanza di tempo libero: a essere determinante è la percezione della cultura come spazio ‘non per tutti’. Musei, teatri, biblioteche e archivi sono luoghi che nascono con una vocazione pubblica ma che, nella pratica, hanno spesso mantenuto un linguaggio, un’estetica e una ritualità socialmente selettiva, escludente e in alcuni casi classista. La forma stessa con cui si comunica o si allestisce un’esperienza culturale può escludere chi non ne padroneggia i codici. Non si tratta solo di barriere fisiche, cognitive o sensoriali, ma di un insieme di segnali sottili – la lingua usata, il tono, le norme implicite, le regole di comportamento – che fanno sentire un’ampia parte di popolazione del tutto fuori posto. Questa sensazione di inadeguatezza è tra le più potenti forme di esclusione sociale da un perimetro culturale che non si fa fatica a definire ‘alto’.

Le barriere culturali, d’altro canto, riguardano l’impianto simbolico e narrativo attraverso cui la società definisce cosa è cultura e a chi appartiene. L’immaginario culturale italiano, pur nella sua ricchezza, resta ancora fortemente eurocentrico, maschile, bianco, eterosessuale, abile, adulto e di classe media o medio-alta. Ciò comporta che le esperienze, le estetiche e le memorie di chi proviene da altri orizzonti culturali – migranti, persone afrodiscendenti, asiatiche o latinoamericane, rom, nuovi cittadini o cosiddette seconde generazioni, in generale categorie sottorappresentate – siano spesso marginalizzate, quando non invisibilizzate. Nei musei e nelle istituzioni culturali, la storia coloniale italiana è ancora poco raccontata e raramente affrontata in modo critico; la presenza di narrazioni altre è episodica, affidata alla buona volontà di singole professioni curatoriali o educative, non sostenuta da un orientamento sistemico. 

Nella pubblicazione Un patrimonio di storie – La narrazione nei musei, una risorsa per la cittadinanza culturale, a cura di Simona Bodo, Silvia Mascheroni e Maria Grazia Panigada, sono riportate alcune delle iniziative apri-pista di risposta interculturale avvenute in alcuni musei italiani nel decennio pre-covid, come Brera: un’altra storia alla Pinacoteca di Breca, TAM TAM – Tutti al Museo al Museo Popoli e Culture di Milano, o Al museo con... Patrimoni narrati per musei accoglienti all’allora Museo Pigorini di Roma. Di altro tipo l’esperienza della Sala della vita del Museo Egizio, che si confronta non solo con lo studio dei resti umani, ma anche con il tema della loro esposizione e le implicazioni etiche che la caratterizzano: tale iniziativa ha voluto rendere l’offerta del museo torinese davvero accessibile a culture assai diverse da quella eurocentrica.

A Catania, Officine Culturali si è confrontata con una borsa lavoro destinata ad un giovane della Guinea Conakry, arrivato sull’isola dopo uno dei tanti sbarchi che attraversano il canale di Sicilia. Il coinvolgimento intendeva avviare il giovane Alpha Oumar all’autonomia lavorativa, mediante un affiancamento progressivo agli operatori culturali di Officine Culturali, nelle attività volte alla conoscenza del patrimonio e all’incremento della partecipazione culturale. La borsa lavoro serviva anche a rafforzare le sue competenze linguistiche in italiano. Il suo ruolo nell’accoglienza al Monastero dei Benedettini aveva insieme un valore pratico e uno simbolico: gli permetteva di confrontarsi con un pubblico ampio e mostrava ai visitatori come un giovane accolto nel nostro Paese potesse essere a sua volta ‘ospite che accoglie’. Insieme a lui è stato avviato un confronto sulle barriere culturali che ostacolano la fruizione del patrimonio da parte di persone con background diversi. Da questo lavoro è nato l’approccio della ‘comparazione funzionale’, che mette in relazione funzioni e significati di luoghi e architetture molto diverse tra loro con esperienze e contesti familiari al visitatore, facilitando la comprensione. Questa metodologia ha arricchito le pratiche educative di Officine Culturali, che l’hanno poi applicata in altri contesti con giovani di diverse provenienze, spesso con il coinvolgimento dello stesso Alpha Oumar.

Questi sono solo alcuni esempi di pratiche volte a far sì che la cultura pubblica non continui a rispecchiare solo un’identità nazionale apparentemente granitica e omogeneizzante, che esclude chi non vi si riconosce. In generale, la narrazione culturale italiana raramente fa i conti con barriere linguistiche e simboliche, con stereotipi e domini di genere, con bisogni generazionali diversi, con quella che può essere chiamata cultura ‘altra’ e che invece – quella sì – è ampiamente diffusa e partecipata.

L’esclusione delle persone con background migratorio è un esempio emblematico di come le barriere sociali e culturali si sovrappongano. Le persone migranti e la loro prole, spesso nata e cresciuta in Italia, incontrano ostacoli multipli: linguistici, economici, amministrativi, ma anche simbolici. Non si tratta solo di ‘non poter entrare’ nei luoghi della cultura, ma di non sentirsi invitate, rappresentate o riconosciute come parte della narrazione collettiva. Come per molte discriminazioni classiste, anche in questo caso la distanza non è solo fisica o economica, ma anche elitaria: molti luoghi della cultura comunicano implicitamente un senso di appartenenza selettivo, in cui chi non corrisponde ai canoni del pubblico ‘tipico’ viene percepito come ospite temporaneo, non come soggetto culturale a pieno titolo: quella cultura 'alta' di cui si diceva prima si barrica all’interno di recinti dorati, invisibili ma altrettanto invalicabili.

L’istituzione culturale, in questo quadro, rischia di diventare uno spazio di potere asimmetrico: chi detiene il linguaggio, la curatela, le risorse, produce rappresentazioni che gli altri possono solo osservare. È un potere concreto, che si esercita nella selezione delle storie da raccontare, nelle immagini che si scelgono per la comunicazione, nelle collezioni che si espongono, nella costruzione di discorsi e percorsi, nella scelta delle voci da lasciare ai margini. L’accessibilità culturale, dunque, non può essere ridotta all’abbattimento delle barriere architettoniche o all’uso di strumenti digitali o comunicativi inclusivi: richiede un lavoro di autoriflessione profonda delle istituzioni stesse, una revisione dei propri paradigmi di significato, delle proprie pratiche e delle proprie relazioni con le comunità, delle proprie priorità strategiche e soprattutto del senso profondo delle proprie visioni.

Esistono esperienze che mostrano una via diversa. In diverse città italiane, progetti di mediazione culturale partecipata, di biblioteconomia e di museologia sociale stanno sperimentando forme di apertura che non consistono solo nel 'portare il pubblico al museo', ma nel portare il museo (la biblioteca, la performance musicale o teatrale) nelle comunità, addirittura decostruendo il ‘modello del deficit’ (esperto-che-fa-cultura vs profano-che-ne-fruisce) per costruire prodotti e pratiche culturali con quelle comunità.

Ne sono esempio esperimenti come il programma La cultura dietro l’angolo a Torino, con il quale Compagnia di San Paolo, Ufficio Pio, il Comune di Torino e un’articolata rete di enti del terzo settore — Case del Quartiere in testa — stanno affrontando, ormai dal 2021, il fenomeno delle povertà relazionali, soprattutto nelle periferie, grazie ad una delocalizzazione dell’offerta culturale di enti, come il Museo Egizio, il Teatro Stabile, il Teatro Ragazzi e Giovani, l’Unione Musicale e molti altri, addirittura dando vita a pratiche e prodotti pensati proprio per rafforzare le relazioni interpersonali. Ancora, con il progetto Traiettorie Urbane, la Fondazione Edison Orizzonte Sociale e l’impresa sociale Con i Bambini hanno sostenuto una compagine di enti del terzo settore impegnata nel contrasto alle povertà educative di persone minori in otto quartieri di Palermo mediante pratiche performative partecipate, trasformazione collettiva dello spazio pubblico in chiave culturale e artistica, sport sociale. A Catania la Librineria, un esperimento di biblioteca autogestita nel quartiere popolare di Librino, è diventato un perno aggregativo culturale essenziale nello stesso luogo delle attività dei Briganti, ormai nota squadra di rugby sociale che affronta i conflitti e le diseguaglianze del territorio rispondendo con consapevolezza e unità. A Scampia, Il MOSS – Ecomuseo Diffuso Scampia, primo ecomuseo di Napoli, nasce nel 2021 da un progetto Chi rom e… chi no, sviluppato insieme a un gruppo di professioniste e professionisti del territorio. Nel maggio 2023 l’ecomuseo apre per la prima volta le sue ‘porte invisibili’, offrendo itinerari e installazioni di arte pubblica diffuse negli spazi del quartiere e sulle terrazze dello spazio gastronomico italo-romanì Chikù. Le opere collettive sono create dalle persone che vivono a Scampia — soprattutto bambine, bambini, giovani e famiglie — che diventano protagoniste e custodi dei racconti del territorio.

Molti altri sono i progetti da citare: le biblioteche accoglienti di Torino e Bologna, o gli esperimenti nei musei di Milano (Brera), Bergamo (GAMEC), Napoli (MANN), e lo spettacolo dal vivo di Catania (la danza di Scenario Pubblico, la giocoleria di Ursino Buskers, la musica di Sambazita. Associazione Musicale Etnea, Darshan e MusicaInsieme Librino, ma anche i laboratori di teatro sociale di Officina SocialMeccanica e di Officine Culturali), che propongono ogni giorno modi diversi di interpretare le pratiche culturali e i luoghi ad esse collegati, consentendo a persone non abituate o non nelle condizioni di farlo, di partecipare ampiamente e attivamente.

Quando la cultura si elabora collettivamente, e non solo si offre, essa smette di essere un dispositivo di distinzione per diventare uno strumento di relazione. Iniziative di co-curatela, archivi condivisi, laboratori interculturali, narrazioni di quartiere o pratiche artistiche di comunità dimostrano che la partecipazione è possibile solo quando le istituzioni accettano di decentrarsi e di lasciare spazio ad altri sguardi. L’accessibilità si misura allora non nella quantità di visitatori, ma nella qualità delle relazioni attivate.

Ma per rendere strutturali questi cambiamenti, occorre superare la logica dell’evento o del progetto episodico e costruire politiche culturali di lungo periodo che riconoscano la diversità culturale come risorsa e non come eccezione. Ciò significa, per esempio, sostenere la formazione di professionisti e professioniste culturali con background migratorio, includere la pluralità linguistica nei dispositivi di mediazione e ripensare i modelli di governance in chiave partecipativa, dai budget agli organi decisionali. Significa sostenere sempre meno progetti (destinati ad estinguersi nei loro inevitabili cicli) e sempre più soggetti (collettivi, come ETS, imprese e cooperative sociali) capaci di generare, con pazienza e visione, concreti impatti sociali di lungo periodo. L’inclusione richiede processi di co-decisione, di corresponsabilità e di redistribuzione del potere culturale: in questi casi può addirittura diventare coesistenza, una delle più alte – e orizzontali – forme di democrazia umana.

La sfida più grande, tuttavia, è culturale nel senso più profondo del termine: è la necessità di ridefinire chi ha diritto di dire ‘noi’ quando parla di cultura in Italia. In un Paese che tende a concepire la propria connotazione culturale come un’eredità immobile, aprirla al contributo di chi è arrivato dopo – o di chi è stato storicamente escluso – non significa perderla, ma farla evolvere. L’Italia non è soltanto il suo passato, ma anche la somma dei suoi presenti: delle lingue, delle musiche, dei volti e delle storie che la abitano oggi.

Riconoscere le barriere sociali e culturali significa quindi non solo denunciare una mancanza, ma immaginare un futuro in cui la cultura sia effettivamente un bene comune, accessibile, condiviso e plurale. Un perimetro che ragioni per coesistenza tra le persone, non per inclusione asimmetrica top-down. Non si tratta di ‘portare la cultura a chiunque’, ma di dare l’opportunità a chiunque consapevolmente lo voglia di partecipare alla costruzione della cultura. Solo così la partecipazione culturale può tornare a essere ciò che dovrebbe essere: una forma viva di democrazia, e un suo prerequisito fondativo.